Lo sbarco “interetnico” degli Alleati. I Comanche approdarono a Scoglitti

(di Giuseppe Calabrese) – Con il termine di Anglo-americani si è inteso indicare solitamente le nazionalità delle truppe da sbarco nel corso dell’Operazione “Husky” di invasione della Sicilia nel luglio del ’43, con la sola aggiunta dei militari canadesi che affiancarono le forze Alleate.

In realtà le nazioni coinvolte nello Sbarco in Sicilia furono molte di più, fino a toccare quota 28 e forse oltre, in quanto nelle operazioni belliche furono coinvolte anche le unità provenienti dalle colonie, specie inglesi e francesi, fino a formare un’armata di notevoli proporzioni, anche in virtù delle popolazioni che formavano i territori interessati.

A darci un “assist”, come diremmo oggi in gergo sportivo, sono stati ancora una volta i reportage degli inviati di guerra “embedded” (al seguito) delle truppe Alleate, che ci informavano su un aspetto quanto meno singolare dell’Operazione “Husky”: la presenza di circa 1.500 pellerossa, inseriti nella 45° Divisione di fanteria statunitense, che sbarcarono sulla spiaggia di Scoglitti. La conferma ci arriva da un resoconto del magazine Usa Newsweek che ci offrì alcuni dettagli su questa notizia inedita e sui retroscena della partecipazione di queste unità che si arruolarono come volontari per dare il loro contributo alla liberazione dal nazifascismo.

Foto n. 1 Pellerossa in combattimento (dal libro di Matteo Incerti “I Pellerossa che liberarono l’Italia”)

Ecco come presentò la circostanza in un’edizione dello stesso mese di luglio del ’43 il settimanale americano, soffermandosi sulla composizione del 45th Us Infantry (45° Divisione di fanteria) delle forze americane che <si aprì la strada verso Vittoria fino a 12 miglia nell’interno, una buona prova nel primo assaggio della battaglia. Questa unità, attiva nel 1924, prima con compiti di guardia nazionale – spiegava Newsweeek –, è formata da gente dell’Oklahoma ed include 1.500 indiani di 28 tribù. I pellerossa – proseguiva Newsweek –, che in pieno assetto di battaglia ballavano attorno al fuoco del campo a Camp Patrick Henry, Va., poche notti prima della partenza, furono truppe di infiltrazione ideale>.

Gli inviati del Newsweek non chiarirono, però, a quali Nazioni indiane appartenessero i pellerossa sbarcati a Scoglitti. Ma grazie alla provenienza dall’Oklahoma, è possibile affermare con sufficiente margine di certezza che si trattasse in buona parte di Comanche, stanziali in tutto il territorio di questo Stato Usa, nell’est del New Mexico, nel sud-est del Colorado e del Kansas ed in modo considerevole nel Texas. Un popolo molto esperto nell’arte della guerra, diviso in 11 sottogruppi, spesso in lotta tra loro ed abilissimi nell’utilizzo dei cavalli. Tra l’altro l’etimo di Oklahoma sta a significare “terra dell’uomo rosso” in quanto deriva da “choctaw okla homma”.

Un aspetto che giustifica in parte le 28 tribù a cui fece riferimento il magazine Usa, in cui erano forse compresi anche i pellerossa della Nazione Seminole, in parte dislocati in Oklahoma, oltre che in Florida e probabilmente di altre tribù. Una conferma importante sul contributo di guerra e di sangue offerto dai pellerossa fino alla completa liberazione dell’Italia dal nazifascismo, unità inserite soprattutto nelle truppe canadesi oltre che in quelle americane. Un sacrificio in termini di vite testimoniato dalla sepoltura di questi “guerrieri” nei maggiori cimiteri di guerra italiani, a cominciare da quello siciliano di Agira in provincia di Enna, e non adeguatamente riconosciuto come contributo concreto alla riconquista della libertà nel nostro Paese.

Oltretutto l’area di sbarco in cui furono coinvolti questi pellerossa inquadrati nelle forze Alleate fu sicuramente una delle più impegnative dell’intera Operazione “Husky”, se gli inviati del Newsweek sentirono il bisogno di sottolineare in uno dei reportage del luglio del 43 che <gli americani che si sono fatti strada verso le spiagge occidentali di Licata, Gela e Scoglitti, nel sud-est della Sicilia, hanno combattuto la loro prima dura battaglia a quanto pare perché il nemico aveva erroneamente considerato che gli sbarchi alleati avessero avuto luogo all’estremità occidentale della Sicilia ed avevano concentrato la maggior parte delle forze lì>.

Foto n. 2 Nativi in divisa (da “I pellerossa che liberarono l’Italia” di Matteo Incerti )

Ma c’è un altro aspetto, assolutamente inedito, che contraddistinse il contributo dato dai Comanche alla vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale, come dimostra il servizio giornalistico della rete televisiva statunitense Pbs: l’utilizzo dell’idioma di questi pellerossa come codice per impedire l’intercettazione delle comunicazioni militari soprattutto dalle forze giapponesi. Finora era più conosciuto il ruolo svolto in tal senso dagli indiani della Nazione Navajo come “code talker” (letteralmente “coloro che parlano in codice, n.d.a.), che si esprimevano una lingua complicata all’epoca nei fatti sconosciuta in tutto il mondo al di fuori degli Stati Uniti tanto che lo spionaggio giapponese non riuscì a decodificare.

https://www.pbs.org/video/onr-comanche-code-talkers/

Da considerare che quando i pellerossa combatterono per liberare l’Italia dal nazifascismo non godevano ancora dei diritti civili. In Canada li ebbero riconosciuti quasi 20 anni dopo, nel  ’62. Tant’è che alla fine della guerra, i nativi americani e canadesi si batterono per essere riconosciuti i loro diritti e furono molto impegnati nelle proteste rivolte alla salvaguardia della natura dagli scempi ambientali. In fondo queste lotte rappresentavano il naturale prosieguo delle battaglie combattute sin dal luglio del ’43 in Sicilia e nell’intero territorio italiano per riportare la democrazia nel nostro Paese.

Giuseppe Calabrese

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