Giuseppina Torre, la pianista vittima di violenza si racconta nel libro “Un piano per rinascere”

Un’intervista choc quella che la pianista vittoriese Giuseppina Torre ha rilasciato al Corriere della Sera nella quale racconta la sua storia che voluto mettere nero su bianco nel libro “Un piano per rinascere” scritto con Barbara Visentin.
Un amore tossico giovanile quello raccontato dalla pianista e compositrice vittoriese che si è trasformato in anni di abusi, ma finalmente oggi ha deciso di rompere il silenzio e di condividere la sua storia con le altre donne che come lei hanno conosciuto la violenza, a quelle che sono riuscite a denunciare e a liberarsi e a chi invece è ancora dentro il tunnel.
La storia risale alla sua adolescenza ma poi quest’uomo è diventato anche suo marito e il padre di suo figlio.
Lei aveva 14 anni e lui 17 quando si sono conosciuti e innamorati. Il copione è quello classico, lui prima è gentile, la riempie di complimenti ma presto mostra la sua vera natura. “La sua tecnica- racconta la Torre- era quella di sparire e chiudersi nel silenzio per poi manifestare il suo interesse con gesti eclatanti. Si passava da zero a mille, e poi di nuovo a zero in un secondo”
Un’altalena emotiva che la faceva stare sempre sulle spine. La sua quindi all’inizio era una violenza psicologica ma come spiega la pianista “Quando si è ragazzi, presi dall’infatuazione, dalle farfalle che ti volano nello stomaco, non dai il giusto peso a certi segnali. Lui per me è stato il primo vero amore giovanile e il mio unico amore perché un sentimento così forte, così totalizzante, non l’ho più provato per nessuno. E poi era la Sicilia degli anni Ottanta: l’educazione dell’epoca, il contesto sociale lasciavano intendere che la gelosia fosse una manifestazione di amore”
Con il tempo le violenze psicologiche diventano sempre più pesanti tanto da farla sentire una donna e un madre inadatta.
“Mi definiva- racconta la Torre- una donna da rottamare, fisicamente e professionalmente eppure non faceva altro che cercarmi fisicamente per lui era un’esigenza quotidiana e mi metteva parecchia ansia, facendomi sentire obbligata. Era diventato un cartellino da timbrare”.
Ma è quando arrivano le prime botte, sputi, schiaffi e calci che si rende conto che deve porre fine a quella storia. “La seconda volta che è successo, quando lui ha risposto a mio padre al telefono e gli ha detto che non sapeva dove fossi, ho visto la morte negli occhi. È stato anche il momento in cui ho deciso di andarmene di casa: se lo aveva fatto una seconda volta, lo avrebbe fatto anche una terza, una quarta, una quinta” Ma non è facile, lui si rende conto che la sta perdendo e la sua violenza, come accade spesso in questi casi, esplode. “Mi controllava il cellulare, insisteva per fare sempre videochiamate quando ero via per controllarmi. Poi bloccò le carte di credito e prelevò tutti i soldi che c’erano sul nostro conto in comune. Fece sparire anche tutti i miei vestiti dicendo che c’era stato un furto e un ladro aveva portato via solo le mie cose, tutti gli abiti che indossavo ai concerti”
C’è poi un passaggio che racconta la Torre e che purtroppo riguarda il comportamento delle forze dell’ordine quando le donne decidono di denunciare.
“Uno di loro mi chiese se fossi proprio sicura di voler denunciare il padre di mio figlio. Ero con mio padre, cresciuto con la divisa da carabiniere: quella frase ci ha gelati. Mi fece sentire che non fosse reale quello che stavo vivendo, come se me lo stessi inventando” Purtroppo la Torre vive un’esperienza negativa anche con un’associazione a sostegno delle donne vittime di violenza domestica.
“Mi consigliarono di tornare a casa, da mio marito, perché coglierlo in flagranza di reato avrebbe dato maggior valore alla mia causa” Insomma una situazione già difficile resa ancora più complicata dal fatto di vivere in un contesto come Vittoria dove è facile spargere le voci ed è quello che fa suo marito iniziando a fare credere a tutti che fosse impazzita, che fosse una donna leggera per infangare la sua reputazione. Alla fine comunque la condanna è arrivata anche se dei sei mesi di carcere non ne ha scontato nemmeno uno. “Quest’anno- racconta- la corte d’appello ha dichiarato il “non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato ascrittogli estinto per prescrizione”, condannandolo al pagamento delle spese legali per quel grado di giudizio”. Da allora sono passati molti anni, dieci per l’esattezza adesso vive a Milano insieme al figlio che ha 19 anni e che ha sempre vissuto con lei anche se non gli è stato mai impedito di vedere il padre: “Nostro figlio sa: non è né dalla mia parte né dalla sua parte ma dalla parte della verità. Perché ha visto” Ma nonostante il tempo e la distanza continua a non sentirsi sicura: “Non sono totalmente tranquilla perché chi vive una violenza del genere non lo può mai essere. C’è una parte di te che sta sempre sul chi va là”
Per sua grande fortuna però a salvarla ci ha pensato la musica. “La musica è stata salvifica. Il pianoforte posso definirlo il mio compagno fedele di vita perché c’è sempre stato, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie alla musica sono rinata. Dico sempre alle donne che sono vittime di violenza, che vivono un amore tossico, di aggrapparsi alle loro passioni perché da lì può arrivare la forza di alzarsi”

Dal 2022 nei suoi concerti mette sul pianoforte un paio di scarpette rosse, un simbolo contro la violenza sulle donne “Sono simbolo di una lotta in cui io sono solo una goccia nell’oceano, ma unita alle altre gocce posso dare anch’io un piccolo contributo”
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