I servizi di “In marcia” sui ferrovieri di Modica lungo i binari dell’anarchia e del socialismo

di Giuseppe Calabrese – La ferrovia non fu solo un mezzo di collegamento moderno e rapido, in grado di coprire le distanze tra le più disparate località del nostro Paese, ma rappresentò soprattutto un strumento veloce per la circolazione delle idee di progresso e democrazia.
Lungo i binari della rete ferroviaria nazionale “viaggiavano” e si affermavano le novità politiche e sindacali sin dall’800. Gli ideali dell’anarchia e del socialismo, soprattutto, trovavano nei ferrovieri, specie nei macchinisti, il migliore veicolo di diffusione. Tanto che Maurizio Bardi nel saggio “Cronaca di un secolo in Lunigiana”, pubblicato nel 2004 per i tipi di “Città del Mondo” per conto del quotidiano Il Tirreno e della Comunità montana della Lunigiana, parlò esplicitamente di “socialismo ferroviario”, che si rivelò anticipatore di diversi decenni del moderno sindacalismo.
<Nelle tre principali società ferroviarie italiane esistenti, Mediterranea, Sicula e Adriatica lavoravano – scrisse Bardi– oltre 100 mila ferrovieri con 295 qualifiche a secondo della società di appartenenza. Lavoravano in media 13 ore al giorno con uno stipendio che variava dalle 15 lire mensili per una guardiana alle 400 lire per un capostazione titolare. I ferrovieri erano stati i primi ad organizzarsi sindacalmente formando società di mutuo soccorso dal 1871>. Un aspetto approfondito da chi scrive nel convegno sul recupero delle rimesse ferroviarie della stazione di Modica del 15 dicembre 2019, promosso dalla Scuola di formazione politica “Virgilio Failla”.
Un’esperienza politico-sindacale che alla fine dell’800 in Sicilia e nel Ragusano, in particolare, allora territorio della provincia di Siracusa, si rivelò emblematica, come mi confermò a suo tempo il sindacalista anarchico di Ragusa Pippo Gurrieri. L’anarchico palermitano Emanuele Gulì, esponente del Fascio ferroviario siciliano, infatti, il 25 Aprile 1893 diede vita al Fascio dei lavoratori di Vittoria, composto da Rocco Emma, Gioacchino Gallenti, Rosario Lorefice, Emmanuele Bellassai, Paolo Garretto, promuovendo manifestazioni dei Fasci dei circondari di Modica e Terranova (l’odierna Gela) e partecipando al congresso regionale dei Fasci del 22 Maggio.
Gulì creò inoltre le condizioni per l’ingresso del Fascio anarchico vittoriese in quello socialista e soprattutto fu nell’agosto di quell’anno tra i protagonisti di primo piano, nel ruolo di delegato del Fascio ferroviario, dello sciopero “insurrezionale” dei ferrovieri delle Ferrovie Sicule contro la “cointeressanza”, che prevedeva la riduzione del personale e l’uso del lavoro a cottimo, fino alla chiusura delle trattative culminate nel successo della vertenza. Da queste premesse nacque la rivista mensile In Marcia! organo dei macchinisti, fuochisti ed affini, in sostanza del personale di trazione e dello Sfi, il Sindacato ferrovieri italiani.
Stampato nella storica Tipografia Vannucci di Pisa, il foglio iniziò le pubblicazioni nel novembre 1908. Il periodico, che aveva all’inizio una tiratura di 1.600 copie, divenne ben presto uno strumento di lotta e denuncia dei ferrovieri, che da tutta Italia inviavano articoli, opinioni, notazioni tecniche e rivendicazioni del personale di macchina. <Questo pezzo di carta – era scritto nella presentazione del primo numero – vuole essere il faro irradiante delle nostre miserie, della nostra vita dolorante, dei nostri misconosciuti diritti. Su questo foglio, noi e voi, sviscereremo tutte quante le questioni che hanno attinenza col nostro servizio in rapporto al materiale, alla sua utilizzazione, ed al suo mantenimento. Criticheremo tutte le anomalie ed ingiustizie che a mano a mano ci verranno segnalate, apriremo una nutrita campagna, poiché il Paese sappia, conosca diffusamente le nostre condizioni>.
A spiegare l’efficacia sindacale e territoriale del foglio In Marcia!, chiuso dal fascismo nel 1926 per poi riprendere le pubblicazioni nel 1945, subito dopo la Liberazione, con la testata modificata di Ancora In Marcia!, un saggio del 2008 dal titolo “Cento anni di vita e di lotte. Un viaggio lungo un secolo” di Alessandra Valentini, che spiegava come oggi <tutto ciò che riguarda l’informazione e la circolazione delle notizie e delle idee ha una velocità estrema, ma pensiamo ai primi anni del secolo: partendo da Pisa bastava un macchinista che portasse una copia della rivista in un’altra stazione e quelle pagine raggiungevano, poco a poco, posti inimmaginabili, lasciandosi dietro “distanze che sembravano infinite”.
<E magari quelle parole riuscivano – si sottolineava – ad acquisire la forza della dinamite, la velocità della macchina a vapore, la modernità di quel “mostro” che nel lontanissimo 1863 Carducci aveva definito indomito e benefico e che “i monti supera, divora i piani”. E come il treno accorciava ed accorcia ancora oggi le distanze fatte di chilometri, la rivista dei macchinisti ha contribuito – si ribadiva – ad accorciare le distanze tra i lavoratori, a creare una rete grazie alla quale le idee di ciascuno fossero meno isolate e più condivise. Una rete viva e funzionante fatta di passione, di lotte, di solidarietà, di uomini e donne in carne ed ossa, anche oggi nell’era di internet>.
Nel primo redazionale si sollevava subito la questione delle condizioni di vita dei ferrovieri, fino a <denunciare anche alle autorità competenti comunali lo stato incivile, anti-igienico di alcuni dormitori>. Inoltre, i redattori tenevano a precisare quella che all’apparenza sarebbe potuta sembrare come una contraddizione: <Ci piace ripetere che la Rivista non avrà alcuna tendenza politica, né aprirà le sue colonne alle astiose e caine polemiche fra compagni>. In buona sostanza si ribadiva un no netto a qualsiasi forma di spaccatura sindacale e l’affermazione della piena unità nella difesa dei diritti.
Ma alla base delle proteste, raccolte nella rubrica “Cronache dai depositi”, non c’erano solo rivendicazioni sindacali, a volte venivano anche posti problemi riguardanti la dignità ed il decoro della categoria, valori ai quali si teneva molto. Come accadde nel 1916, quando in una lettera aperta al Capo Divisione trazione di Palermo fu sollevato il caso della custode del dormitorio di Modica, che offriva “servizi extra” ai ferrovieri, scritta in un linguaggio mai esplicito, molto simile a quello utilizzato dal giornalista Rai del Telegiornale unico Ugo Zatterin quando annunciò, il 20 febbraio 1958, l’approvazione della legge Merlin che chiudeva le case di appuntamento.
Una lettera ripresa puntualmente dal mensile In Marcia! <Ce la saluta Vossignoria la morale? – si chiedevano retoricamente –. Ci sorprende, e non poco, come fin d’oggi si tenga come custode del dormitorio di Modica pel personale di macchina quel brutto ceffo di donna, che fu la causa del grave incidente avvenuto tra i macchinisti Mollica Francesco di questo deposito e Cerenzia del deposito di Caltanissetta (che ebbero molto probabilmente un alterco a causa di quella donna, n.d.a.). E’ vergognoso e deplorevole che ancora non si provveda col mandare a spasso quella donna che tutt’ora permette che in casa sua (meglio, nei locali dell’Amministrazione) si giochi a carte, si venda vino e occorrendo, mercé l’intervento di altri, si faccia anche il seguito…


La stazione di Modica (da Flickr di Francesco Vinci) e il deposito con la 740 (da il Portale dei treni)
<Si egregio Cavaliere; ma dopo quello che è avvenuto (che poteva avere degli strascichi gravi, n.d.a.), per rispetto alla stessa Amministrazione da cui dipendiamo – proseguiva inoltre la lettera pubblicata su In Marcia! –, come avete punito i due protagonisti, aveste dovuto compiere l’atto punitivo col mandar via da quel locale la custode che tanto disdoro reca o chiama un tantino se stesso>.
Ma il problema più serio e sentito già da allora era quello dei disastri ferroviari. Ce ne fu uno piuttosto serio il 4 Gennaio 1914, subito dopo la stazione di Donnafugata. Il treno 3912, che faceva la tratta Licata-Modica, a causa di un forte temporale precipitò nel torrente in esondazione poco prima di raggiungere il casello 56, nei pressi di Ragusa Inferiore (oggi Ibla, n.d.a.). Un incidente ricostruito sulla base del servizio pubblicato da In Marcia! nel libro “I dannati della ferrovia”, pubblicato nel 2017 per i tipi di Excogita editore da Alessandro Pellegatta, un macchinista di Milano. A condurre il convoglio erano due ferrovieri esperti: il macchinista Giuseppe Lumia ed il fuochista Salvatore Dirocco.
<La visibilità è praticamente nulla – ricostruiva Pellegatta –, i fanali non illuminano che per pochi metri, la velocità è bassa ma Giuseppe e Salvatore non hanno nemmeno il tempo di accorgersene. Il convoglio arriva sul precipizio e, dopo tremendi sobbalzi, si rovescia su un fianco e finisce nelle acque del torrente in piena. Giuseppe e Salvatore vengono investiti da un ustionante getto caldo – proseguiva ancora l’autore –, non hanno nemmeno il tempo di urlare, perché prima gli arriva addosso una scarica di carbone e subito dopo vengono sbalzati fuori dalla locomotiva finendo nelle acque gelide del torrente.
<Si trattava – si chiedeva pertanto Pellegatta – di una catastrofe naturale inevitabile? Oppure il disastro poteva essere evitato? Il casello 56 si trovava proprio a fianco del torrente esondato. Il casellante avrebbe dunque potuto correre incontro al treno e fermarlo. Ma il casellante non c’era o, meglio, non c’era più. Per risparmiare personale, il casello era impresenziato. La sua presenza avrebbe evitato il disastro>.
La vicenda approdò mesi dopo nel Parlamento del Regno, prima a seguito dell’iniziativa del deputato di Ragusa Superiore Giovanni Cartia del Partito democratico costituzionale, già sindaco della città, e poi con un’interrogazione del parlamentare bissolatiano di Canicattì dei Socialisti riformisti Giuseppe Marchesano, che infuocò la seduta del 4 Giugno 1914. Ma la risposta che fornì il sottosegretario ai Lavori pubblici Achille Visocchi sul fatto che <un guardalinea aveva ispezionato la tratta poco prima che si verificasse il crollo del terrapieno> lasciò insoddisfatto l’onorevole Marchesano.
Fatto sta che dopo l’intervento di Cartia vennero creati due posti fissi di sorveglianza ai due ingressi della galleria con la costruzione di altrettante casette ed, a seguito dell’interrogazione di Marchesano, il casello 56 tornò ad essere presenziato da un casellante dotato di bandierina rossa, con il compito di sorvegliare il torrente e di intervenire in caso di pericolo. <D’altronde – ricordò Pellegatta –, come disse ironicamente Marchesano, “i treni non hanno paura delle bandierine rosse”>.
Ma un mese dopo il disastro arrivò la doccia fredda per Lumia e Dirocco, entrambi sindacalizzati, che nel frattempo erano rientrati al lavoro: <Si vedono addebitare – ha ricordato il macchinista scrittore – rispettivamente 10,77 lire e 5,39 lire. Motivo? Indennizzo a favore dell’impresa per le tre tonnellate di carbone che si trovavano nel tender (si trattava del carro unito alle locomotive per il trasporto del carbone o di altro combustibile, n.d.a.), che a causa del ribaltamento erano andate perse nel fiume!>
Anche un’azione di sciopero massiccia poteva mettere a repentaglio la sicurezza della ferrovia, come accadde il 1° Maggio 1922 in occasione di un’astensione dal lavoro nella stazione di Modica. L’adesione fu totale, ma non mancarono i crumiri promossi sul campo macchinisti con il rischio di causare incidenti ferroviari a causa della loro imperizia. <Astensione completa del personale deposito locomotive – si leggeva infatti sulle colonne di In Marcia! del Giugno 1922 –. Nessuno si presentò in servizio. Così per le altre categorie. Nessun treno si effettuò da questa o dalle stazioni di questa giurisdizione>.


Gruppi di ferrovieri che hanno lavorato nella stazione di Modica sotto la pensilina e lungo i binari
Ma il personale in sciopero fu sostituito da macchinisti improvvisati. <Il solo noto Musumeci Alfio – scrisse la rivista dei ferrovieri – venuto dal Deposito Locomotive di Catania effettuò il 4972. Giunse poi da Siracusa il 2989 condotto da un militare che chiese la sostituzione per proseguire per Vittoria. E’ qui giunto, da Palermo, certo Mistretta ex accenditore e collaudato…macchinista 1° Maggio> (espressione usata per indicare un crumiro elevato a macchinista pur non avendone i requisiti, n.d.a.). <Si vorrebbe far viaggiare come tale. L’indignazione nel personale minaccia – avvertì In Marcia! – di sboccare in una seria agitazione>.
Questo modus operandi furbesco oltre che irresponsabile delle Ferrovie, già sperimentato in occasione dello sciopero del 1° Maggio, rischiò di causare un disastro ferroviario il 13 Luglio 1922, sempre ad opera di quel Mistretta, elevato a macchinista il giorno festivo del 1° Maggio.
<Fu ordinato al suddetto – denunciò In Marcia! nell’edizione del Luglio 1922 – di portarsi con la sola macchina (gruppo 600) a Ragusa, per effettuare da quella stazione un treno; partito da Modica e prima che giungesse a metà della galleria, retrocedeva con eccessiva velocità in stazione rischiando d’investire la locomotiva di manovra con alquanti carri. Il panico e l’allarme dei presenti servì ad evitare il disastro che sicuramente sarebbe avvenuto gravissimo>.
Il foglio dei ferrovieri rincarava poi la dose: <La responsabilità di tal fatto è da attribuirsi alla incapacità del Mistretta e principalmente a chi per ostacolare la manifestazione senza alcuno scrupolo e preoccupazione di sorta ha creato incoscientemente alle delicate mansioni di macchinista degli inetti procurando un continuo attentato alla sicurezza pubblica e del materiale. Si aspettano forse i morti – si chiedeva In Marcia! –, i feriti, l’interruzione del servizio per restituire al loro mestiere questi signori?>.
Giuseppe Calabrese
In copertina la testata di “Ancora in marcia”.
Cronache dai Depositi, Emmanuele Bellassai, Gioacchino Gallenti, Maurizio Bardo, Paolo Garretto, Pippo Gurrieri, Rocco Emma, Rosario Lorefice, Tipografia Vannucci, Ugo Zatterin, Virgilio Failla