Una riflessione: Diritto al lavoro, Costituzione tradita o da riscrivere?

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 primo comma della Costituzione Italiana); La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 primo comma della Costituzione).

L’art. 1 sancisce un principio solenne. Nella Repubblica il lavoro è condizione di libertà, di dignità e di autonomia per le persone.

L’art 4, come è noto a tutti è programmatico. La Repubblica deve promuovere le condizioni affinché il diritto al lavoro diventi effettivo. Prima di andare avanti nel ragionamento che vogliamo proporre, una premessa è necessaria in onore all’onestà intellettuale che deve animare chi si approccia all’analisi di un problema. Il diritto soggettivo al lavoro non è pieno e azionabile ad ottenere un lavoro. Per cui, non è un diritto effettivo, tant’è che spetta alla Repubblica crearne le condizioni. La piena occupazione nel nostro paese non è mai stata raggiunta e quindi possiamo sostenere senza timore di smentita che la norma programmatica contenuta dell’art. 4, non ha mai trovato la sua piena attuazione. E qui entra in gioco l’art. 38 della Costituzione che contiene il diritto in favore dei disoccupati di avere assicurato i mezzi di sostentamento.

Premesso ciò, possiamo, adesso, disquisire se la classe dirigente, i governi, hanno fatto tutto il possibile per rendere effettivo questo diritto e se le scelte fatte negli ultimi 30 anni consentono di garantire quanta più occupazione possibile e, soprattutto, se sono compatibili con la nostra Costituzione.

C’era un tempo in cui il nostro paese gestiva i cicli economici azionando, principalmente, due leve fondamentali in dotazione a qualsiasi Stato in regime di piena sovranità, cioè senza ingerenze e vincoli esterni o sovranazionali.

Gli strumenti a disposizione erano la politica monetaria e la leva fiscale. Si riusciva a gestire i cicli con la politica espansiva mettendo in circolo denaro, pagando dazio a punti di inflazione, o con la politica fiscale più accomodante quando vi era la necessità di fare crescere l’economia e l’occupazione e viceversa quando vi era l’esigenza di tirare il freno. Ai giorni nostri, l’Italia, così come gli altri paesi che adottano l’euro, non sono più titolati ad azionare la leva monetaria e la politica fiscale subisce forti ingerenze dalla tecnocrazia europea.

Alla vigilia della firma dei trattati di Maastricht, un volto noto della politica italiana affermava che l’Europa ci avrebbe consentito di lavorare un giorno in meno e di guadagnare come se lavorassimo un giorno in più. Alla luce dei fatti, potremmo benissimo dire che in tanti non lavorano per niente. Perché? Uno dei motivi portato alla luce da alcuni studiosi, sarebbe da rinvenire proprio nei trattati europei. I trattati impongono la stabilità dei prezzi e l’inflazione prossima ma sotto al 2 per cento. Il compito di vigilare affinché questi due parametri vengano rispettati è affidato, dai trattati sul funzionamento dell’Unione europea (Art. 127), alla BCE e al sistema delle banche centrali. 

Un piccolo inciso sull’inflazione. L’inflazione alta porta vantaggio ai debitori (compreso lo Stato), ai pensionati, agli stipendiati, in quanto il reddito cresce con riferimento al tasso di inflazione e il debito, nella stragrande maggioranza dei casi, rimane fermo alla data di contrazione. Viene facile, per esclusione, comprendere a chi conviene l’inflazione bassa.

Quali fattori rientrano nella dinamica inflazionistica? Uno, quello che interessa a noi in questa analisi, seppur succinta, è proprio il livello occupazionale. Cresce l’occupazione (NAIRU), crescono i salari (NAWRU), cresce l’inflazione, più la BCE e il sistema delle banche centrali soffocano il sistema produttivo affinché non crei le migliori condizioni occupazionali. Utilizzando la curva di Philips (studioso inglese), i tecnocrati tengono sotto controllo il livello occupazionale, il livello salariale e il differenziale tra il PIL potenziale (la ricchezza che il nostro paese potrebbe produrre utilizzando al massimo tutti i fattori di produzione) e il PIL effettivo (quello che effettivamente produciamo). Più si assottiglia la differenza, più sale l’occupazione e più cresce l’inflazione che come abbiamo detto prima è il nemico numero uno del paradigma su cui è costruita l’Europa. Si realizza quella che viene chiamata “DISOCCUPAZIONE DI EQUILIBRIO” fosse anche al 20 per cento.

Ogni anno, la Commissione europea, a seguito dell’analisi dei bilanci degli Starti membri, decide e concorda con i governi il livello di disoccupazione a cui deve sottostare ogni singola economia. Potremmo dire che chi è disoccupato quest’anno lo sarà anche l’anno prossimo e quello dopo ancora. Trova lavoro chi ha la fortuna di subentrare a chi lo perde.

Ora, mettendo a confronto il valore che l’Art.1 e l’Art.4 danno al lavoro con quanto hanno portato alla luce gli studiosi, la domanda sulla compatibilità delle norme istitutive dell’Unione europa con la nostra Costituzione è d’obbligo. Come potremo domandarci se i governi italiani, tenendo conto che la disoccupazione di equilibrio prima dell’entrata in vigore del sistema europeo era concepita e contenuta dentro la sfera fisiologica per cui potremmo addebitargli esclusivamente una incapacità a creare le migliori condizioni, nel momento in cui concordano il tasso di disoccupazione con la commissione europea, quindi la programmano, consumano un atto di tradimento. O forse farebbero meglio a rivederla?

Emanuele Cavallo

art 1, art4, leva fiscale

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